sono stato a Gaza – 157

Sono stato a Gaza, ieri, ed era come la immaginavo.

La potenza incredibile delle immagini della distruzione, un paesaggio dove l’architettura espressionista della morte non impedisce alla vita di riemergere come erba semisecca da un deposito di rovine e rottami.

Gaza con la sua voglia ostinata di sopravvivere anche senza speranza; Gaza con i suoi pregiudizi islamici; Gaza dove la liberta` e` pur sempre soltanto la voglia di vivere, almeno un poco all’occidentale.

Ci sono stato attraverso un film, che aveva l’impostazione di un documentario, ma non so se lo era fino in fondo, e dunque inventava un linguaggio cinematografico molto lontano dagli standard del cinema di massa.

E fortunatamente con i sottotitoli in tedesco, perche` me la cavo meglio con il tedesco scritto che con quello parlato (sara` anche un poco per la sordita` che avanza), e cosi` non mi sono perso una battuta, mentre dallo schermo risuonavano gli accenti arabi che lasciavano alle riprese tutta la loro autenticita`.

Questo linguaggio duro delle cose: alla fine cosi` intensamente commovente.

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Gaza Surf Club e` un film che potevo vedere soltanto qui, immagino, visto che il regista Philip Gnadt e` di Stuttgart, e che la produzione del film e` stata sostenuta dai contributi di diverse istituzioni locali.

E` la storia di un gruppo di ragazzi appassionati di surf (e anche di una ragazza a cui piace molto nuotare, che pero` ovviamente non fa parte del gruppo, per il suo sesso).

Lo praticano su tavole costruite da loro, e dunque con mezzi di fortuna, su quel mare che e` anche un confine arbitrariamente spostato negli anni a delimitare le possibilita` di pesca delle barche locali:

20 miglia, poi 10, poi 6, poi 3, poi di nuovo 6.

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Da quando la lista islamista di Hamas, ma pur sempre di un islamismo moderato, ha vinto le elezioni, anni fa (e poi non ce ne sono state piu` altre), la popolazione e` stata come presa in ostaggio, per punizione, dallo stato di Israele, ma diciamo pure anche dalla comunita` internazionale che considera Hamas una organizzazione terrorista.

Ed e` tenuta reclusa in questa striscia di terra dove vivono quasi due milioni di semi-detenuti, un enorme campo di semi-concentramento, senza speranza e senza liberta`.

Ma un conto e` saperlo in astratto, un conto e` entrare nella vita reale e concreta che si svolge dentro quell’enorme recinto concentrazionario attraverso lo sguardo diretto, mediato da una telecamera, senza complicita` pietistiche.

Ascoltare le battute di una umanita` minore, lontana dalla politica, ma non senza convinzioni, pur sempre sfuocate, generiche, legate al quotidiano.

Le si direbbero autentiche e non predisposte dal regista, che le ha soltanto scelte,

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La storia si concentra via via, col procedere del film, attorno alla figura di Ibrahim, che vuole andare alle Hawai, per via dell’amicizia che ha stabilito con un volontario americano che e` venuto a Gaza e col quale rimane in contatto via internet.

Sogna, Ibrahim, di imparare nelle Hawai a fabbricare delle vere tavole da surf e di dare vita a Gaza ad un Club di veri appassionati, per il quale sta costruendo con i suoi amici una sede tra le rovine dei bombardamenti israeliani.

Sogna di riuscire ad ottenere un visto per uscire da Gaza e dopo molti tentativi falliti per andarsene via Egitto, alla fine, incredibilmente, ne ottiene uno via Israele.

Certo, dev’essere ricco Ibrahim, per potersi permettere questo viaggio, oppure e` il suo amico americano che glielo offre?

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La parte finale del film si gioca su continui rimandi visivi:

tra le esperienze che Ibrahim fa alle Hawai, l’azzurro cobalto del mare, gli scogli, le ragazze seminude, mentre gira tra i laboratori che costruiscono tavole da surf, nel paesaggio da cartolina delle isole,

e la vita dei suoi amici che aspettano le livide e grigie tempeste del Mediterraneo per sfidare la morte sulle loro attrezzature approssimative e improbabili.

Quando una scritta finale ci avverte pero` che Ibrahim non e` piu` tornato a Gaza, noi un poco ce lo aspettavamo:

fin dall’inizio il suo viso era meno arabo di quello dei suoi amici, un po’ troppo bello in fondo e un poco hollywoodiano.

Non c’e` lieto fine a Gaza, sembra dirci il film:

al massimo qualche via di fuga individuale da una forma di oppressione aperta alla servitu` accettata e desiderata di un modello di vita piu` facile e piacevole.


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