la storia di Mohamed Lamine Dosso, vent’anni, rifugiato dalla Costa d’Avorio per motivi umanitari, può essere raccontata in due puntate e da due punti di vita opposti, ma siccome oggi è domenica cominciamo con la prima puntata buonista.
ma prima ve lo presento.
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devo però iniziare con qualche accenno alla situazione del paese da cui Mohamed è scappato, per darne un’idea precisa.
io ne ho saputo vagamente qualcosa attraverso un mio inquilino di vent’anni fa, di cognome Kaffe, un uomo vigoroso e amante del lavoro, oltre che innamorato perso delle donne, di tutte le donne, sempre pieno di progetti economici futuribili, che sposò e fece venire dal paese Marie Chantal, un donnone giunonico grande il doppio di lui, in barba al nome troppo romantico, figlia di un generale ivoriano e dal fisico simile a quello di un corazziere, ma dall’animo poetico e portato alle crisi mistiche, fino a sfiorare la santità;
quel matrimonio, del resto, aveva del miracoloso; io li aiutai a scrivere lo statuto di una associazione di mutuo soccorso su base religiosa che Seraphine voleva fondare con l’aiuto della parrocchia del centro di Brescia dove viveva, poi li persi un po’ di vista, poco dopo che lei cominciò a pubblicare qualche poesia su una rivistina bresciana di cultura molto orientata a destra: (eccola qui: https://corpus0blog.wordpress.com/2019/04/24/marie-chantal-nobilta-ti-saluto-bortologia-57-iii-74-17-aprile-2009-459/)
le ultime notizie che ebbi, prima di partire per la Germania, dicevano che Edmond si era messo in proprio come camionista, in Germania mi telefonò per propormi un mirabolante progetto di vendita in Costa d’Avorio di stufe a pellet (!!); si era trasferito a Milano e trovato un’altra donna stabile (per non dire nulla delle altre), probabilmente di taglia più adatta alla sua, e aveva mollato la moglie al suo destino, che si prospettava molto precario, dato che lei non sapeva svolgere nessun lavoro e ovviamente non se la sentiva, come figlia di un generale, di andare a fare le pulizie, e non aveva neppure le risorse per ritornare al paese: sfrattata dalla famiglia molto cattolica che le aveva affittato la casa quando stava con un marito che guadagnava, e ridotta a vivere di assistenza pubblica.
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ma, venendo a un quadro meno occasionale, la Cote d’Ivoire aveva circa 5 milioni di abitanti, appartenenti a 62 gruppi etnici diversi, quando ottenne nel 1960 l’indipendenza formale dalla Francia; oggi gli abitanti sono quasi 30 milioni, e di questi circa un quarto sono immigrati dai paesi vicini, in una proporzione che supera il 25%, soprattutto dal Mali o dal Burkina Faso, oppure sono figli di immigrati nati nel posto, per quasi la metà di questa proporzione; si aggiungono le forti migrazioni interne, tra il nord islamico e il sud cristiano o animista; il tutto provocato dal fatto che, relativamente ai paesi vicini, la Costa d’Avorio ha una delle economie più prospere dell’Africa, anche se basata sull’esportazione di materie prime, e con una fortissima diseguaglianza sociale, a vantaggio di una ristretta elite.
avete letto bene: più di 7 milioni di immigrati su una popolazione che è meno della metà della nostra, o italiani provinciali che si sentono al centro del problema migratorio per avere avuto negli ultimi trent’anni una immigrazione di circa 5 milioni di persone su una popolazione di 60 milioni, in declino demografico, oltretutto; e continuano a pensare, disinformati dai media, che l’Europa sia al centro dei fenomeni migratori mondiali, senza sapere che occupa una parte molto limitata, invece, dato che i fenomeni più massicci riguardano proprio i paesi del cosiddetto terzo mondo, anche in entrata.
ma anche lì in Costa d’Avorio l’immigrazione ha scatenato il razzismo: negli anni Novanta, a partire dall’elezione a presidente di Henri Konan Bedié, leader del Partito Democratico della Costa d’Avorio, venne creato il concetto di ivorianità e avviata una politica di forti discriminazioni etniche: si trattava di difendere la “razza pura ivoriana” e relegare gran parte della popolazione del nord a un ruolo di secondo grado, non riconoscendo loro la cittadinanza (il modello era la contrapposizione tra tutsi e hutu nel Ruanda, che tra il 6 aprile e il mese di luglio del 1994 portò al più grande genocidio della storia moderna, col massacro di circa un milione di tutsi).
anche in Costa d’Avorio scoppiò nel 2002 la guerra civile tra un esercito ribelle del Nord, guidato dal partito di quello che è l’attuale presidente, Alassane Ouattara, che era stato escluso dalle elezioni “per dubbia nazionalità”, e il presidente Gabgo, salito al potere con un colpo di stato.
a seguito di questa guerra durata circa un decennio e che ha precipitato il paese nel caos, Gbagbo è stato catturato dalle forze speciali francesi e tradotto in carcere davanti al tribunale penale internazionale dell’Aja, con l’accusa di crimini contro l’umanità, assieme alla moglie accusata di essere a capo degli “squadroni della morte”, ma da questa accusa lui è stato assolto e poi scarcerato.
un esempio preciso, peraltro, della politica dell’aiutiamoli a casa loro che vede come precisa protagonista in questo caso la Francia.
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in Costa d’Avorio Mohamed frequentava una scuola di football e aveva un padre nella polizia, schierato dalla parte del presidente, e dunque bersaglio per i ribelli; allora, assieme al fratello maggiore Moussa fugge, ancora ragazzo, prima in Burkina Faso, poi in Tunisia; durante il viaggio viene a sapere che durante un agguato il padre e poi anche la madre sono stati uccisi a colpi di pistola: il padre, morto sul colpo, la madre, dopo alcuni giorni in ospedale; la sorella, invece, fuggita in Burkina Faso pure lei, si è fermata lì e si è sposata.
dalla Tunisia Mohammed passa alla Libia col fratello per traversare il Mediterraneo, ma vengono divisi e da allora di lui non ha più notizie: “Sono stato più volte anche in prefettura e in questura ma di mio fratello non c’è traccia in Italia”.
sbarcato in Italia, dopo un viaggio “devastante”, gli viene riconosciuto lo status di rifugiato per motivi umanitari (oggi non sarebbe più possibile, dopo la revisione delle norme voluta da questo governo col Decreto Sicurezza) ed entra l’anno scorso nello SPRAR, Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, di un paese bresciano di mezza montagna, un’associazione finanziata allora dal ministero dell’Interno, per dare assistenza e favorire l’integrazione con la comunità locale.
ci sono proteste a Serle contro il progetto, anche per il luogo individuato per la residenza: il primo piano dell’edificio dove abita il custode del centro sportivo comunale.
ma Lamine gioca bene a calcio e dopo un anno eccolo in pianta stabile nella squadra del paese; intanto ha frequentato un corso di italiano e un tirocinio – lavoro, dove ha imparato la saldatura e smussatura dell’acciaio.
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e questa è la fine della parte buonista della storia di Mohamed Lamine; e se questa è la parte migliore, immaginatevi il resto…
alla fine di questo mese lui dovrà lasciare lo SPRAR e arrangiarsi: il tempo di permanenza massimo è di un anno.
non parla ancora bene l’italiano, ha imparato un lavoro, ma non ha un lavoro.
è stato accettato e ben inserito finora perché gioca bene a calcio: e a me capita anche di chiedermi: e chi non aveva neppure questa dote? avrebbe suscitato tutta questa simpatia?
comunque maggio è alle porte: e temo che la parte cattiva della storia di Mohamed Lamine in Italia debba ancora essere scritta.
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un ringraziamento a Matteo Carone che con un suo articolo mi ha fatto conoscere questo caso e ispirato il post.