la drammatica esperienza del wat Phnom Sampeau – 306 – Cambogia 2009 26

che cosa mi abbia fatto scegliere dieci anni fa in Cambogia questa escursione al wat Phnom Sampeau, nei dintorni di Battambang, non saprei proprio dirlo subito, tanto modesto è il rilievo che gli dedica la guida Lonely Planet su cui mi basavo dieci anni fa nei miei viaggi con una fiducia molto maggiore dell’attuale…

certo, è una mia costante, in ogni viaggio, inserire qualche meta minore dal punto di vista turistico, perché sono convinto che soltanto in questo modo ci si può avvicinare davvero a capire un paese e il suo popolo, e da questo punto di vista la cittadina mediocre di Battambang non mi stava deludendo, neppure nel mostrarmi la sua voglia di rapida modernizzazione sul modello cinese, ma innestando questa trasformazione sulla base di una vita contadina tradizionale, come abbiamo visto nel post precedente.

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qui però si abbandonano le immagini della vita rurale, viste finalmente quasi dal di dentro, per cominciare una lenta salita, abbastanza spettacolare per gli affacci aperti sulla pianura e su un lago lontano, sulla collina calcarea su cui sorge questo tempio buddista non particolarmente antico:

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seguo il consiglio della guida e lascio da parte per il ritorno la ripida scalinata, e invece scelgo il percorso meno difficile, che porta in mezzo al verde, tra diverse porte, la postazione di un cannone della recente guerra, ancora in loco, e punti di culto minori, alcuni in restauro.

incuriosisce sempre, come un oggetto che ci rimane sconosciuto, la complessa simbologia degli oggetti culturali buddisti: le bandierine, le statue che rimandano ad una mitologia religiosa altrettanto ricca di quella cristiana, anche in termini di leggende sacre, ma che non ho mai trovato il tempo di esplorare.

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tra il primo e il secondo video vi è un pranzo e una sosta, per gustarsi quell’unico grande frutto esotico che poi lo costituisce, e quindi meglio sarebbe parlare di spuntino, oppure di colazione.

ma poi si arriva davvero al tempio, più solenne e colorato dei santuari che lo hanno anticipato, ma non sostanzialmente diverso.

se non fosse che, per la prima volta in questo viaggio, dopo i turistici elefanti di Angkor Thom, e i pipistrelli giganteschi che vivono in alcune delle altre rovine di quella antica città, ora qui compaiono le scimmie:

sono molto casarecce, per nulla turistiche – e infatti la guida non ne accenna neppure: si sono create il loro nido attorno al cuore del tempio e scorrazzano indisturbate sui bordi affacciati sulle spettacolari vedute della pianura sottostante, senza vederle.

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vi è un clima di grande serenità, come in tutti questi santuari buddisti, e l’apparizione di qualche monaco è soltanto una presenza silenziosa.

ma questo silenzio, così carico di significato qui, prepara alla discesa nell’abisso del tempio, ma più ancora del cuore umano, che è il vero motivo per cui sono salito fino a qui: per interrogare me stesso, e la storia.

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accanto al santuario più grande, infatti, costruito con le sue cinque torri dorate slanciate verso il cielo, ve ne è uno ricavato in fondo ad una grotta immensa, nel suo buio illuminato soltanto da una fenditura sul suo soffitto.

qui accanto ad un grande Buddha sdraiato, che si intravvede appena nella penombra della spelonca pregano dei monaci.

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pregano probabilmente per cancellare almeno retrospettivamente, se solo si potesse, le atrocità che qui vennero commesse e che un cartellone con un disegno elementare ricorda for foreigner, dato che i locali non possono certo dimenticarlo.

trascrivo dalle succinte notizie della guida:
Questa strada conduce ad un terribile campo di sterminio, nei pressi di un paio di grotte.
– ma l’espressione è impropria: sono proprio queste grotte, dedicate al culto di Buddha, il campo di sterminio: è come se da noi, per massacrare migliaia di persone, si fosse scelto l’interno di una cattedrale.
Una piccola scalinata scende verso una piattaforma ricoperta di teschi e ossa delle vittime.
Guardando in alto sulla destra si scorge una fossa a cielo aperto – cioè una apertura sul cielo aperto – dove le vittime venivano bastonate, prima di essere buttate nella cavità sottostante.

proprio attraverso quell’occhio di cielo, che, adesso che siamo scesi anche noi nell’abisso, vediamo da qui sotto, migliaia di esseri umani passarono dalla vita alla morte, percossi a sangue, umiliati e poi finiti con un salto nel vuoto.

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sulle pareti della grotta, in qualche punto, i graffiti con cui chi stava per morire lasciava un’ultima traccia di sé; sul fondo ancora un ammasso confuso di crani e altre ossa che costituiscono il pavimento della grotta:

soltanto in parte i resti sono stati raccolti in un paio di teche dorate, dove giacciono confuse: il numero rende impossibile ogni riordino o classificazione, tanto meno una identificazione.

resti senza nome in luogo di preghiera e raccoglimento.

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proprio dal buddismo più puro è nato lo sterminio, così come il campo nazista di Buchenwald sorge proprio poco lontano da Weimar, il cuore della poesia tedesca di Goethe e Schiller, che scrisse, nell’Inno alla gioiaWir sind Brueder, Noi siamo fratelli.

come abbia potuto questo succedere, rimane una domanda che ci interroga ancora.


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