Abu Dhabi’s day – bortolindie 7 – 61

è sabato, il secondo giorno festivo del weekend degli Emirates, e la giornata (di ieri) comincia nello stesso modo in cui era cominciato il venerdì (a parte il fatto che mi sveglio con un po’ di mal di gola): come gestire il ritardo di ben 4 giorni dell’aereo dello Sri Lanka? l’idea di anticipare la visita dell’Oman, prevista per il ritorno, sarebbe in se stessa ottima, se non servisse un visto online, che richiede almeno tre giorni per essere concesso, ma che non è sicuro che arrivi se non entro 15 giorni, e poi vale soltanto 30 giorni; e quindi si rischia di farlo a vuoto.

però capisco anche che è bene che liberi mia figlia dal suo dovere di accudirmi (tra l’altro sono due giorni che sto passando completamente a sbafo e non riesco a convincerla ad accettare almeno che le regali un paio di occhiali da sole che le servirebbero); andrò certamente a Dubai, e ci posso stare perfino un paio di giorni, ma dopo?

la visita a Dubai alla cugina, che non vedo da una decina d’anni almeno, dal matrimonio di mio figlio, potrebbe riempire al massimo mezza giornata…, ma lei arriva solo martedì, malandata dopo un’operazione, e il tutto non è neppure troppo entusiasmante (salviniana!): per esempio, le scrivo che ho l’aereo che parte giovedì sera, e lei mi risponde giuliva che allora posso passare a trovarla venerdì; poi ammette di non avere capito di che aereo si trattava, ma io mi irrito leggermente (sto usando in realtà il termine ein wenig Irritation, che i tedeschi usano per dire che si sono freddamente incazzati) e rinviamo concordi l’incontro a tempi migliori…

però, dai che ti ridai, smanettando in internet, arrivo ad una scoperta che riempie sia me sia Sara di entusiasmo: non serve il visto per andare da Dubai a Muscat, la capitale dell’Oman, via terra, almeno se si dispone già del visto di Dubai, ma soltanto se passi via terra…

vittoria! anche Sara non crede ai suoi occhi, ma deve ammettere che questo sta scritto nel sito ufficiale dell’Ufficio dell’Immigrazione dell’Oman…; quindi, con quell’oretta quasi di coda in uscita all’aeroporto di Abu Dhabi mi sono procurato (gratis) anche un visto implicito per l’Oman se ci arrivo in autobus? incredibile fortuna….

fosse vero, questo viaggio si confermerebbe perseguitato da una serie di sfighe, sì, come sentiva il mio inconscio, ma benefiche; sembra quasi troppo bello per essere vero, perché non riusciamo a capire bene che cosa si intende per visto per Dubai, cioè se ne esiste uno distinto per questo emirato (dei sette che compongono questa federazione), oppure se con l’espressione si intende comunque un visto per gli Emirates…

Sara è più pessimista e propende per la prima ipotesi, e dunque sospetta che ogni emirato abbia un visto diverso; io sono più ottimista, sia per propensione innata, sia perché vado a controllare il visto che ho ricevuto l’altro ieri, stampigliato sul passaporto, ed è generico degli Emirates, da nessuna parte c’è scritto che è valido soltanto per Abu Dhabi; del resto, se così fosse, aggiungo adesso che scrivo, come mai non ci hanno fermato ieri quando siamo andati ad Al Ain, che credo sia già in qualche altro emirato?

comunque, la questione resta aperta, al momento, perché il tempo passa ed è meglio uscire; mettiamo ancora assieme la lettera alla società con cui avevo assicurato il viaggio per chiedere il risarcimento; io avevo scritto una bozza di due righe, rivelando la sorprendente caratteristica, per chi mi legge, di sapere essere concisissimo se scrivo in una lingua che non conosco (l’inglese); Sara me ne ha preparato una versione più decente, anche se dal tono vagamente commerciale, che raggiunge le dodici righe e si conclude con best regards, come di dovere… clicco invio sulla mail ed usciamo.

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la meta della mattina è l’esplorazione di quest’isola di Al Reem, dove vive Sara; già, perché Abu Dhabi sorge in parte su una specie di arcipelago di isole fitte, in parte sulla terraferma vicina.

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ho messo la cartina perché al termine isole non vi vengano in mente delle strane idee: sono una specie di territorio compatto, separato da ampi canali e da insenature che si mescolano alla terraferma, ma alcune sono abbastanza grandi e ben collegate da ponti fra loro, da far dimenticare che si tratta di isole.

l’unico angolo di Abu Dhabi dove si ha davvero la percezione di avere davanti a sé un’isola è proprio davanti a casa sua, dove una colonia di mangrovie ha fissato una lunga isola sabbiosa: siamo nel cuore della città, ma su quella sabbia e tra quelle piante vivono gli aironi e perfino ci capita di vedere una gru.

camminiamo sul bordo di una spiaggia, in mezzo ad un vento forte, baciati da un sole degno della Florida, in un quartiere stra-elegante:

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sdraio di legno sono a disposizione per sedersi (e il mio corpo vecchietto  ha bisogno di un rito mattutino, che si ripete ad ogni ripresa di camminata lunga, la mattina o dopo un riposo: devo sedermi un paio di minuti due volte, a distanza di cinque, per eliminare dei dolori fastidiosi alla gamba sinistra, che altrimenti mi impedirebbero di camminare: sono fortunato perché è vero che li ho, ma è anche vero che mi passano facilmente; e dunque sedersi su queste sdraio a contemplare qualche minuto la gente che passa e che voga nell’insenatura è più un piacere che altro).

qui si alternano attrezzature sportive per esercizi a corpo libero e liberamente disponibili, spazi giochi attrezzati per bambini; uomini e donne di diverse nazionalità passeggiano rilassati o scivolano nell’acqua su barche e canoe: è un vero paradiso, il mio Eden, dice Sara: un lavoro che le piace, una città multietnica che fornisce una qualità della vita superiore, senza neppure costi eccessivi, un frammento di natura proprio sotto casa: mi sembra di essere sempre in vacanza, dice lei.

commentiamo anche come non sia affatto strano, in questo contesto, che la democrazia politica appaia perfettamente inutile, un rito rissoso che si giustifica soltanto dove ci sono beni e servizi da spartire, ma dove tutto piove dal cielo come il benefico regalo di un emiro, a che serve votare? e infatti qui non si vota, ci si rimette alla buona volontà di chi ha il potere politico e dei suoi consiglieri…

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facciamo il giro dell’isola; alla sua punta settentrionale, dall’altra parte di un largo canale, Sara mi mostra la cupola lontana del Louvre Museum di qui, dove lavora.

altre chiacchiere fra noi sono troppo personali per raccontarle qui, ma il tempo scorre piacevole; arriviamo ad una parte del quartiere dove la splendida sistemazione di un piccolo canale interno suscita la sua meraviglia: due settimane fa non c’era ancora niente, qui era solo un cantiere chiuso!

ma qui l’intera città, o quasi, pare un cantiere continuamente aperto, ed è forse impossibile fare una foto dove non compaia da qualche parte la sagoma di un grattacielo ancora in costruzione; uno in particolare colpirà la mia attenzione: completamente rivestito di una impacchettatura in cartone, che evidentemente proteggi i vetri ancora in via di installazione.

ma devo interrompere le mie cronache, sorry: l’adattatore comperato ieri al centro commerciale non funziona e la batteria del netbook sta per esaurirsi.

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ahah, invece ho adattato io l’adattatore: non accettava il terzo spinotto della presa, perché sarebbe dovuto passare per un buco troppo piccolo, ma con un coltello ho staccato la parte, visto che era di plastica, ed ora il netbook è in ricarica.

per essere chiari, non mi preoccupavo tanto per il blog, che avrebbe potuto anche restare in silenzio per il prossimo mese, ma per tutte le prossime operazioni di organizzazione del viaggio in itinere che sarebbero diventate impossibili e questo avrebbe perfino potuto costringermi al rientro.

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Sara ama talmente questo posto! dice di averlo vinto alla lotteria della vita; e io sono d’accordo con lei; e il suo amore finisce immortalato, abbastanza casualmente all’inizio, da una ripresa che poi ci fa ridere fino alle lacrime, quando la riguardiamo: la sto riprendendo nel contesto di una festa di compleanno locale che si svolge in uno spazio attrezzato, sempre liberamente disponibile per gli abitanti, quando un sacchetto di plastica le passa davanti trasportato dal vento; lei si spinge avanti per raccoglierlo, da cittadina educata, ma lui è dispettoso ed accelera; Sara mantiene un passo elegante e misurato inseguendolo composta e lui accelera ancora di più, mostrando l’intenzione di uscire dall’ombra del grande padiglione che ci copre per un centinaio di metri e di spingersi sotto il sole che sta diventando cocente; così anche Sara  costretta a mettersi a correre e finalmente lo cattura soddisfatta: così la scena assume l’aspetto di una comica.

il ritorno a casa ci consente di consumare i resti della cena thailandese di ieri sera e al vecchietto di farsi un pisolino restauratore.

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poi si esce, prima meta un centro commerciale alla ricerca dell’essenziale adattatore per le prese della corrente, fondamentale per il funzionamento del pc (appunto), e ne troviamo uno, a buon prezzo, in un negozietto cinese dentro il complesso: centro che è poi assolutamente identico a quelli di ogni altro paese che sia, di standard completamente internazionale; è oramai assolutamente impossibile distinguere, quando sei in un centro commerciale, in che paese ti trovi: qui solo due sparute scritte in arabo lasciano qualche indizio; Sara mi racconta che anche qui l’uso è per molti di trascorrere il proprio tempo libero in posti come questi, e assieme commentiamo l’insensatezza del turismo che vede milioni di persone spostarsi da un continente all’altro, per poi finire in luoghi assolutamente identici a fare lo shopping delle stesse identiche merci – e le chiamo così, volutamente, per ricondurle alla loro vera natura.

indubbiamente Abu Dhabi è una capitale della globalizzazione: città sorta dal nulla nel giro praticamente di cinquant’anni, con una violenza espansionistica che non ha eguali al mondo, o almeno in quelle parti del mondo che ho conosciuto, e non sono poche: neppure la Cina, che pure mi ha lasciato a bocca aperta, mi pare sia in grado di competere nelle sue metropoli proliferanti con l’esplosione di questa città, anche se indubbiamente la Cina surclassa del tutto gli Emirati nel numero impressionate dei suoi centri di espansione; ma conveniamo, Sara e io, che questa è una Cina addirittura potenziata nei ritmi di adesione frenetica alla globalizzazione, economica, ma anche culturale e di modi di vita.

ma qui è naturale domandarsi chi ha prodotto tutto questo cemento, questi progetti, chi ha costruito questi mastodonti infiniti, chi ha guadagnato su questo modello di sviluppo, e come si possa mai avere pensato (e qualcuno lo pensa ancora) che esso potesse continuare a svilupparsi senza portare alla fine ad una stasi; ma io mi chiedo anche che cosa sostiene, effettivamente, una città come questa, a parte i profitti mostruosi del petrolio, e che cosa potrà esserne, quando questi saranno inevitabilmente finiti, presto o tardi che sia.

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ma ecco che di nuovo mi faccio prendere da questa fastidiosa voglia di interrogarmi, di capire, quando c’è poi così poco da capire.

meglio tornare a raccontare come di nuovo ci mettiamo in macchina (l’auto a noleggio di Sara), in questa città costruita soltanto per le macchine, tra questi vialoni larghi più di un centinaio di metri, in questi percorsi che sembrano non finire mai, e arriviamo ad uno degli sparsi frammenti, per non dire l’unico, dell’Abu Dhabi del passato, qui ridotta a cartolina folcloristica di classe.

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è un piccolo forte di sabbia bianca, che ospita un museo dell’artigianato tradizionale:

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la visita comincia, dentro la riproduzione di una antica tenda, col rito arcaico del caffè, che viene pestato dentro un mortaio, poi versato dentro la caffettiera di antico bronzo nell’acqua bollente, arricchito di spezie ed aromi, rimescolato fumante, e servito leggero fino quasi ad essere trasparente, col suo sapore delicato stemperato dai datteri che ti vengono messi a disposizione per il finale del rito.

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fuori risuonano musiche molto antiche di esecutori avvolti in tuniche bianche, e c’è perfino un falcone che ha gli occhi tappati con schermi di cuoio; dentro si riproducono gli antichi mestieri.

anche qui tutto è di altissimo, internazionale, livello; e il paradosso è che usi tipicamente locali vengono accuratamente riprodotti secondo schemi conservativi ed organizzativi che sono oramai unici in tutto il mondo.

ciò non toglie che alla fine ci sia il riscatto di un’attività artistica ampiamente anonima e senza tratti individuali, che sarebbe stata considerata minore; del resto siamo nell’islam, nel regno della sottomissione, e il primo aspetto che colpisce è la mancata valorizzazione dell’individualità, la sottomissione completa, appunto, dell’essere umano allo spirito del gruppo, all’anonimato dell’esistenza.

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e questo valga anche come premessa per l’ultima grande esperienza della giornata che è la visita all’immensa moschea costruita in undici anni, dal 1996 al 2007,  dallo sceicco Zayed, il padre della patria degli Emirati, che non la vide mai conclusa, perché morì ad 86 anni nel 2004: sì, è proprio ancora lui, quello che veniva fotografato come una specie di giovane brigante negli anni Cinquanta da quel fotografo inglese.

Sara conosce un punto dal quale si può osservare lo spettacolo del sole che tramonta dietro la moschea, ed è davvero qualcosa che lascia senza parole.

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la moschea rivaleggia col Taj Mahal di Agra, in India, evidentemente, e vorrebbe superarlo: ci riesce sicuramente in dimensioni: l’edificio nel suo insieme misura circa 300 metri per 400 e l’area occupata dal complesso è di 14 ettari; anche il bianco rimanda a quel capolavoro assoluto dell’architettura mondiale, ma qui il bianco è un poco più opaco, e per paradosso la sagoma immensa produce un effetto di schiacciamento verso il basso, anziché uno slancio purificatore oltre la morte nell’eternità dell’amore:

il Taj Mahal è il ricordo che si vuole immortale della donna amata, alla quale si dedica una tomba per l’eternità, quella che il suo creatore poté contemplare soltanto dalla torre dove l’aveva imprigionato il figlio che gli rapì il trono e il progetto di costruire un secondo edificio simile dall’altra parte del fiume, ma nero e per se stesso; qui uno sceicco beneficato dalla fortuna di una ricchezza imponente costruisce il suo gesto di sottomissione all’onnipotente misericordioso, che solo in via secondaria diventa anche la sua tomba magniloquente e megalomane.

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il punto di osservazione è un memoriale a non so quale guerra hanno partecipato di recente gli Emirates, forse quella del Golfo, la prima o la seconda? o entrambe?, ed è molto suggestivo perché permette all’edificio di rispecchiarsi nell’acqua col sole che tramonta alle sue spalle e che per l’occasione incendia di rosso qualche nuvola bassa controluce.

con Sara individuiamo il sovrappasso che supera l’enorme superstrada che ci separa dalla moschea, e che richiederebbe un quarto d’ora di macchina e, in un chilometrino a passo svelto, entriamo che ancora c’è luce naturale, assistendo allo spettacolo grandioso della progressiva veloce discesa verso il buio.

nell’oscurità circostante lo sfarzo gigantesco si fa ancora più arrogante: tutto sembra voler essere senza limiti: il lampadario più grande, che pende dalla cupola, alto da solo 15 metri e adornato di un milione di cristalli; il tappeto di preghiera più ampio del mondo su cui camminano silenziosi soltanto i partecipanti a qualche visita guidata; il gioco delle luci negli archi, nei corridoi; gli altoparlanti che a tratti lanciano le loro giaculatorie coraniche.

ma preferisco tacere, adesso, e lasciare la parola alle Mille e una notte.

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si passa a una bettolina cinese, che Sara ama molto, per la cena

cinese? effettivamente i casi di coronavirus negli Emirates sono in tutto otto, non proprio pochissimi, direi io, in un paese poi non troppo popolato; ma i media locali rassicurano: tre sono già guariti: segno evidente della perfezione del sistema sanitario locale, dicono; mi sento quasi tranquillizzato.

con l’occasione verifico che il mio bancomat effettivamente funziona: stasera offro io la modesta cena a mia figlia, che finora ha pagato tutto per me di questi due giorni che ho trascorso veramente da emiro anche io.

certo, sono così vezzeggiato e ben curato in tutto qui, che il mio spirito di viaggiatore si sta affievolendo; aggiungiamo che al ritorno decidiamo assieme che trascorrerò ancora l’intera giornata di domenica qui, bighellonando a casa e dintorni, e andando soltanto nel pomeriggio a visitare il Louvre, dove lei lavora, per uscire assieme alle cinque, quando lei smetterà; e partirò solo domani per Dubai, dopo avere definitivamente accertato se da lì potrò passare in Oman senza altro visto per via terra: altrimenti anche continuare ad esplorare il resto degli Emirati non sarebbe male e tornare qui giovedì sera per la partenza per lo Sri Lanka: anzi, quasi quasi lo preferisco.

intanto, adesso, chiudo col blog e passo a prenotare la camera per domani sera a Sharjah, la capitale culturale degli Emirates, a 14 km da Dubai…

– fatto.

 

 


4 risposte a "Abu Dhabi’s day – bortolindie 7 – 61"

  1. Condivido la tua riflessione sulla democrazia. Se dovessero iniziare a dividersi in partiti chissà dove andrebbero a finire i soldi del petrolio…
    il racconto di questa giornata mi è piaciuto molto, con foto bellissime…
    non ho capito (ma forse mi è sfuggito) come vi spostate: in auto? Come sono i mezzi pubblici?
    E ho un’altra curiosità (non sei obbligato a rispondere, naturalmente) ci sono precetti da rispettare, ad esempio nell’abbigliamento, specialmente per tua figlia (che so, coprirsi il capo, i pantaloni…).
    Buona continuazione!

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    1. grazie delle tue domande, mi fanno capire dove devo integrare il racconto, per farlo capire meglio.
      mia figlia ha un’auto a noleggio, e una patente locale, che ha dovuto fare, perché non accettano le altre; sarebbe impossibile muoversi diversamente, in questa città lunga decine di km, e già in auto ci si impiega ore a spostarsi da un quartiere all’altro, anche se il traffico è molto scorrevole, ma le distanze sono quello che sono.
      mezzi pubblici in teoria ce ne sono: ho visto in due giorni forse due volte un autobus, ma la città è pensata per i possessori di auto; chi non ha le auto, e credo siano moltissimi, sono i paria, che vivono nei loro quartieri, dove sei più isolato che nel mio borgo della Val Sabbia o quasi, e sono gli addetti alle pulizie e ad altri lavori di basso livello, di tutte le nazionalità del mondo.

      la città in realtà è totalmente plurietnica, di arabi in giro se ne vedono pochissimi, ma la morale è islamica, anche se gestita con molta flessibilità: il velo è richiesto solo nei luoghi sacri, dopotutto e lo portano le donne che vogliono, ma alcune anche col burka totale (poche). proibizione un poco assurda: non mostrare le braccia, però (per le donne, ovviamente); gonne ammesse, ma al ginocchio; devo dire che non sono limitazioni che diano particolarmente fastidio, almeno a me: francamente a volte trovo più fastidioso il contrario, senza essere – come sai – un bigotto.

      a presto se il pc regge e soprattutto il suo proprietario… 🙂

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