Sarà lunga raccontare come sono arrivato fino a qui, seduto sullo zaino, digitando sul netbook, in un angolo della stazione degli autobus di Abu Dhabi, dove ho trovato una presa elettrica per alimentarlo, alle 14:30 ore locali di giovedì 20 febbraio, con una folle temperatura di 34 gradi.
Lo farò presto, ma soltanto nei prossimi post.
Ma siccome noto che la corrente per qualche motivo non arriva, sospendo le trasmissioni anche da qui, in attesa di tempi decisamente migliori…
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trovata un’altra postazione, invece funzionante, a fianco del banchettino della polizia: speriamo che non mi dicano nulla.
Intanto faccio uno sforzo e cerco di ritornare allo stato d’animo di ieri mattina.
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Osservavo, al risveglio, che in fondo – parte la differenza del fuso orario – il jetlag non lo sto sentendo affatto: in fondo continuo a svegliarmi alle 5 di mattina, come a casa – solo che qui sono invece legalmente e solarmente le otto; poi scrivo e digito sul pc fino alle otto; e sono già le undici in Italia; e a questo punto mi alzo e inizio la mia giornata emiratesca: pillolina contro il diabete, poi – non avendo il gatto che piange fuori della cucina, né le galline che mi aspettano – qui, invece di occuparmi di loro, esco e mi occupo di me stesso.
Quella che vado a fare oggi mercoledì 19 febbraio è una colazione, che, con un po’ di fantasia, può essere considerata già come il mio pranzo, e infatti non sarà seguita da altro fino alla sera e alla cena.
La giornata è stupenda, quasi più che primaverile ormai: sembra un inizio estate: il cielo è limpido ed io lo respiro felice, dicendomi che mi sembra di essere in vacanza; e la frase non è così sbagliata come sembra, visto che un viaggio, per me, è tutt’altro che una vacanza, come del resto si sta vedendo e si vedrà ancora meglio proseguendo.
Per la colazione la mia meta è il piccolo supermercato a 200 metri dalla torre dell’ostello; ho trovato il modo di farne una sostanziosa a ben poco prezzo, comperando una specie di brioche salata gigante ripiena di formaggio e di salsiccia, che sarà certamente di pollo, e poi vado a sistemarmi su una panchina del parco inconcluso fatto di ghiaia, di cui ho già parlato.
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Non sono solo: una donna abbastanza giovane, ma non del tutto attraente, mi saluta e si siede vicino a me; ha un viso medio-orientale, e infatti, parlando, mi dice di essere tunisina (anche se parla molto male il francese), di avere un fratello che lavora a Ventimiglia, eccetera eccetera.
Naturalmente so benissimo che il miele che attira le mosche di sesso femminile è la fotocamera troppo vistosa che mi accompagna e che, messa assieme alla camicia a fiori quasi hawaiana, mi dà l’aria di un vecchio pollo spennabile, in giro per il mondo da rimbambito; e del resto non è la parte che sto recitando anche in queste cronache?
La maliarda ha il tempo di bofonchiare qualcosa su un hotel lì vicino, ma figuriamoci se abbocco: so bene di avere addosso un carico da novanta anche qui, 1.200 euro in contanti molto appetibili, e lascio cadere la proposta; intanto lei chiama un amico, che passa, vestito di tutto punto: è un ingegnere algerino che sta andando al lavoro.
Mi pare che lei abbia capito che non batte chiodo, ma non potrei darle almeno i dirham che le mancano per comperarsi un pacchetto di sigarette? Faccio un rapido conto e sono tre euro: può essere il giusto prezzo di questa conversazione innocente e faticosa, e lei se ne va radiosa, poi ritorna agitando festosa il pacchetto; ma io me ne vado; la ritroverò, tra poco, alla fermata del metrò, totalmente trasformata, con tunica verde e velo islamico: ai posteri l’ardua sentenza.
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Giro un po’ cercando di decifrare i ghirigori mentali di chi ha progettato questo quartiere labirintico, fino a che non ho una intuizione: forse si chiama Internet City – senza che ci sia niente di internettiano – perché nella pianta e visto dall’alto, assomiglia ad un at, cioè a @; sì, questa volta credo di averla azzeccata.
Del resto questa idea di scrivere nomi, preferibilmente sacri, attraverso la pianta dei luoghi, è tipicamente araba: mi ricordo ancora quel paesino del Marocco che venni condotto a contemplare dall’alto, perché guardandolo da lì si poteva vedere che scriveva il nome di Allah.
Il che farebbe intendere che internet è la nuova divinità anche nel mondo islamico.
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torno a sedermi un attimo una panchina più in là, per studiarmi meglio come arrivare alla prima meta di oggi: il grattacielo più alto del mondo, e non ricordo come si chiama.
Dalla piantina sommaria della città, presa al primo ostello, sembra in una posizione all’incirca intermedia tra due stazioni del metrò, e ovviamente decido di scendere alla prima, per arrivare al mostro attraversando un quartiere che era già di grattacieli altissimi; sarà un chilometrino da fare, ad occhio, perché non ci sono MAI indicazioni per i pedoni da queste parti – e tenetevelo per detto, perché non lo ripeterò più.
Voi penserete che sia abbastanza facile scoprire dov’è un grattacielo alto 800 metri, più o meno la distanza che sto facendo per cercarlo, ma vi giuro che, se quelli attorno sono alti anche soltanto la metà e voi non siete ben distanti, anche il gigante scompare.
Si memorizza dov’è dal momento in cui l’ho visto dal metrò e poi si marcia in quella direzione: c’è anche un paio di coppie di turisti occidentali che sta facendo la stessa ricerca, una bisex e una monosex, ma rapidamente li perdo di vista, mentre mi perdo a fotografare.
Poi, traversato uno spiazzo immenso, sabbioso e abbandonato, compaiono almeno le indicazioni stradale per il traffico auto: dai, ancora una sgambatina e ci siamo; eccolo dopo l’ultima svolta e resto a bocca aperta.
Non ci credo quasi neppure io, ma la datazione automatica delle foto non lascia dubbi: ci ho messo un’ora ad arrivare qui.
Mettete nel conto che avevo deciso di venire qui sostanzialmente per poterlo raccontare, ma senza molta convinzione: un paio di foto da sotto in su e poi via, mi ero detto; visto da lontano, del resto, la sagoma non mi aveva particolarmente colpito, come opera architettonica.
E invece questa enorme guglia gotica di vetro e acciaio, che scintilla sotto il sole riflettendolo, è un inno urlato alla tecnologia e si slancia verso l’alto da un parco verde con una fontana; i getti zampillano verso l’alto alternativamente, attorno ci sono delle palme, che sembrano dire la pochezza della natura a fronte della mente umana; ed io vorrei anche entrare; ma, non bastasse il custode nero in divisa, ecco i cartelli che precisano che si tratta di una residenza privata e soltanto gli autorizzati possono accedere.
Residenza privata quel ben di dio e quel prodigio di immaginazione?
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chiedo al custode allora come fare per salire sulla torre, e mi risponde che devo andare lungo la via, sulla sinistra, fino ad un centro commerciale (mall), lì scendere per delle scale…
lo faccio, assieme ad altri due che hanno fatto la stessa domanda, ma del mercato non si vede traccia, e i due buttano la spugna: finalmente cominciano dei piazzali notevoli di architettura moderna e su un edificio di vetro vedo una scritta: Tickets, ma è il teatro dell’opera, e l’addetta mi ripete la stessa tiritera: mall, scale, ma ci aggiunge anche bridge, ponte: be’, almeno mi incuriosisce e continuo a camminare in una frastuono faustiano di enormi cantieri dediti a costruire altri grattacieli ovunque: e io che mi meravigliavo degli exploit cinesi…: battuti, qui, senza alcun dubbio (a meno che non siano ancora loro a farli, anche qui).
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e finalmente la torre immane, che ora so che si chiama Burj Khalifa, ricompare prima in mezzo alle gru, poi circondata di nuovo da un verde che si estende attorno ad un laghetto sinuoso ai suoi piedi, e più lontano si vedono delle sagome piccine di cartelloni enormi che sembrano inneggiare alla moda francese; e dall’altra parte questo laghetto ha un nuovo residence in stile arabeggiante tradizionale, simile a quello visto il giorno prima, anche se meno fantasioso.
le foto si sprecano, quel monumento è sempre spettacolare da qualunque punto lo guardi e si fa fatica a farlo stare nell’obiettivo, anche risalendo ad una gradinata in fondo a tutto, che discende da una specie di ingresso principale, di fronte (e intanto è passata un’altra ora di elogio della lentezza che sola permette alle esperienze di sedimentare e diventare profonde).
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Ecco anche il ponte, bianco e geometrico, e una mano misteriosa monumentale di marmo bianco che indica decisa il numero tre alle spalle della torre; risalendo via via, arrivo a delle rapide artificiali che sgorgano alla base di un ingresso ulteriore, piccolo piccolo: basta affacciarsi un momento fuori per scoprire che, ben nascosto, dà direttamente sul piazzale a giardino da cui ho iniziato questo giro di sicuro più di due ore fa,ed è esattamente dove ho chiesto al custode come facevo ad arrivare al grattacielo: solo che questa è una entrata secondaria e lui mi ha mandato alla principale: vedi l’ordine mentale!
Di nuovo una recinzione potente avverte che siamo al limite di una residenza privata e di nuovo domando come si può salire: dentro il centro commerciale, mi rispondono.
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Ancora un centro commerciale, ancora un ponte, questa volta kitsch, su un piccolo fiume immaginario; il luogo trabocca di turisti, ovviamente, e tutti clicchiamo istericamente sulla fotocamera, ma io credo di batterli tutti.
Naturalmente so bene di non fare una bella figura presso i miei amici alternativi raccontando che mi piego anche io a questa moda da turisti annoiati della salita panoramica: del resto, se sono salito sulla torre Eifel, a suo tempo (quarant’anni fa, con bambino sulle spalle e a piedi), sulla torre di Berlino al ristorante da cui venimmo buttati fuori perché la mia ex-moglie mi fece una scenata di gelosia (trent’anni fa), su quella di Stoccarda non so quante volte, quando abitavo lì (quindici anni fa), su quelle di Sidney e di Tokyo, più recentemente, non vedo perché dovrei farmi dei problemi qui.
Nel centro commerciale non si fa fatica a scoprire una coda immensa; la faccio anche io, ma quando allo sportello chiedo il prezzo, mi presentano un ventaglio di scelte, e vi dico soltanto che per la più modesta, fino al piano intermedio, chiedevano più di 100 euro; e qui la mia disponibilità verso le mode turistiche cessa; mi dico che non me lo posso permettere – molto stupidamente, come si vedrà, e oggi non avrei nessun rimpianto anche se avessi spesso 200 euro per salire non fino in cima, dato che la fine è filiforme, ma almeno fino all’ultima piattaforma calpestabile.
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che ci crediate o no, sono intanto arrivate le quattro del pomeriggio, quasi, e non resta che passare alla prossima meta; ma a questo punto resta da fare di nuovo un chilometrino credo, per andare alla seconda stazione: che poi questa si chiami Burj Khalifa, appunto, adesso mi dice che era quella giusta per arrivare fino a qui in fretta.
Dopo avere seguito le indicazioni per l’Exit, ed essermi ritrovato davanti al parcheggio interno del Dubai Mall, chiedo ad una addetta veramente molto gentile come arrivare al metrò: e mi spiega che devo salire al secondo piano e poi prima diritto e poi a sinistra; me lo faccio ripetere e lei gentile lo rifà e alla fine mi chiede: ha capito? may be, forse, rispondo io.
Non è che non ho capito, non ci credo, e, tanto per cominciare continuo al pianterreno, senza vedere indicazioni (che per i pedoni dentro i centri commerciali abbondano, eccome!); quindi salgo davvero al secondo piano, sempre più scettico; del resto questo centro è veramente immenso; è meno scenografico, ma in dimensioni interne supera il Mall of Emirates che ho visto ieri; provo un senso acuto di straniamento: davvero, davanti a questa massa gigantesca di merci accattivanti e a questa folla che percorre questi corridoi senza fine, mi sento preso quasi da una specie di paura: mi sto chiedendo se questo è davvero il mio mondo e che razza di uomo sono io, incapace di stare dentro questo rito immane del consumare per apparire che sembra dominare il mondo, almeno questo…
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ma intanto il segnale che indica la direzione per la stazione del metrò appare veramente e, restando al secondo piano, inizia il percorso lungo per l’uscita, poco meno lungo di quello fatto all’arrivo: solo che qui sono centinaia di metri di centro commerciale, poi seguiti ininterrottamente da altrettanti di negozi e negozietti autonomi, la cui qualità degrada via via fino a quando finiscono e, finalmente, entriamo nelle ultime centinaia di metri del passaggio sopraelevato vero e proprio che ci riporta alla luce dei grattacieli – e c’è perfino una bella imitazione del Big Ben di Londra fra loro.
Tra me mi dico che è una bella fortuna dal mio punto di vista essere arrivato al Burj Khalifa per la via sbagliata: che moto di rigetto immediato avrei avuto vedendolo filtrato, invece, dal centro commerciale.
Ma forse è proprio così che bisogna vederlo davvero…
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il mio prossimo obiettivo, mentre oramai mi muovo disinvolto nel metrò, che mi pare di conoscere bene, e dove mi riposo sempre, visto che si continua a cedere il posto al vecchietto, è l’altro lato del Creek, quella specie di fiordo marino attorno a cui nacque la Dubai antica dei commerci tra mondo arabo e Oceano Indiano; e finalmente mi farò anche l’attraversamento su un barcone di questo tratto di mare largo forse due o trecento metri, per tornare a casa.
Rimango piuttosto deluso dalla parte di là, guardando alla vecchia Dubai, che avevo visitato di sera, e mi era sembrato quasi di poterla paragonare a Venezia, per la curva di questa specie di canale; oppure a Varanasi, per l’analoga curva che fa il Gange; ma mi accorgo adesso da qui che non soltanto questa riva in cui mi trovo è stata totalmente devastata da costruzioni degli anni Settanta, quando cominciò l’espansione incredibile della città, ma anche una parte importante del lato opposto; solo che di sera le luminarie mascherano la pesantezza degli interventi e sembra quasi di passare attraverso una città vecchia ininterrotta tra la parte settentrionale, tuttora intatta, e quella meridionale, meglio rispettata, inframmezzata pesantemente, invece, dai soliti palazzoni anni Settanta.
Ma qui trovo invece, in compenso, la realtà per me entusiasmante dell’antico porto che ancora sopravvive, con i suoi barconi malandati, con gli scaricatori che spostano le merci e le montano a fatica; ritrovo i visi autentici di uomini che vivono di lavoro e sudore e non di passeggiate davanti alle vetrine; ritrovo la voglia mia di fotografare questi visi scavati e densi di autenticità: qualche sorriso e ritrovo il mio terzo mondo un poco pasoliniano, in via di estinzione; i sorrisi sono ricambiati, qualche ragazzo si mette perfino in posa e poi guarda soddisfatto il risultato; i più anziani sono più contegnosi, ma non disdegnano di concedere il loro sguardo più assorto e consapevole.
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I colori sono stupendi nel tramonto che veloce cala, i gabbiani improvvisano danze celesti o tentano fughe ordinate verso occidente sotto la guida di qualche leader improvvisato; una esplorazione breve del decantato suk degli orafi e di altre merci nel quartiere retrostante mi convince che si tratta in larga parte di paccottiglia architettonica improvvisata sul luogo dove è sparito quasi tutto il suk vero – spezie a parte.
e non mi lascio sciupare l’incanto della traversata, alla quale torno subito.
Pensate che costa un dirham, 25 centesimi, il tragitto, questa meraviglia, e non i 500 e passa che venivano chiesti al Burj Khalifa: me lo farei perfino tre volte, se potessi; sfumata invece la minicrociera all’acquario di Dubai, pure messa nel conto, ma che non potrò fare neppure domattina, temo, per i limiti di tempo; meglio correre piuttosto sulla riva occidentale fino al baracchino dove una ragazza col velo dal viso molto triste vende profumi e comperarne uno per mia figlia, che vedrò domani; tra poco ci telefoneremo.
L’adescatrice era ingaggiata dall’azienda di soggiorno, colore locale. Anche tu però, un gelato 12 euro e alla poverina solo spiccioli! Ma passi… vagamente inquietante la grandezza di questi centri commerciali, capisco che uno si chieda ad un certo punto che ci stia facendo in quel posto quando a casa le uova le prende direttamente dal produttore. Per gli amanti di architetture moderne quei palazzi devono essere il massimo… personalmente apprezzo di più l’esploratore, che sta facendo un ottimo reportage, pare quasi di esserci!
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a un certo fascino di quella guglia mostruosa non ho saputo sottrarmi, ma certamente ho apprezzato di più il vecchio porto di Dubai.
grazie di apprezzare quel che scrivo…
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