introduzione controcorrente ad una visita a Mantova – 147

Come sapete, sono caduto nelle mani perfide di un ex-alunno, il dottor M., che consuma le sue vendette assegnandomi ad ogni gita del nostro gruppo dei compiti da fare, in una sorta di ritardatario rovesciamento dei ruoli, e questa volta, in occasione di questa gita a Mantova, non solo ha esteso la sua vendetta fino a coinvolgere anche chi mi fu, oltre che compagna di scuola, collega insegnante di filosofia nel Liceo che frequentava, Marisa B., ma si è spinto fino a mettermi in competizione con Alberto Angela che ha recentemente presentato una trasmissione dedicata non tanto alla città, che ha anche altri capolavori importantissimi, ma ai due palazzi dei Gonzaga, quello ducale e quello del Té.

Competizione persa in partenza, la mia, dato che Angela ha fatto una presentazione bellissima: io non guardo la televisione per abitudine, ma sono andato cercarmela in internet e me la sono guardata, quindi qui la darò per scontata, perché penso che tutti o quasi la abbiano già vista e che non è il caso di ripetere annoiando.

Però mi sono anche accorto che quel modo che ha Angela di presentare la grandezza artistica dell’Italia non è il mio e non mi convince del tutto; so che non tutti saranno d’accordo, ma non possiamo rinchiuderci in un discorso nostalgico e in fondo molto provinciale sull’eccellenza della nostra tradizione artistica, come a rivendicare una specie di esclusiva sull’arte mondiale che non esiste, rinunciando invece a cercare di capire la nostra storia nelle sue luci e nelle sue ombre.

Il passato ci serve per capire meglio il presente, non per rinchiuderci nel presente e ai suoi problemi mitizzandolo.

Nel suo documentario sui palazzi dei Gonzaga a Mantova Alberto Angela sottolinea chiaramente il ruolo anche politico che questa straordinaria bellezza artistica aveva, ma poi è come se, arrivato qui, si fermasse e facesse comunque suo, in maniera abbastanza acritica, quell’obiettivo: Angela rimane interno al fatto artistico, che illustra benissimo, anche quando ne sottolinea il ruolo politico e di potenza; ma se il nostro punto di osservazione è questo, allora dobbiamo anche saper criticare nelle sue ombre la connessione di questa arte col potere politico che la finanziava e sosteneva: se critichiamo il potere dei Gonzaga, capiamo anche meglio l’arte straordinaria che hanno prodotto.

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Il potere dei Gonzaga ha incontrato nell’arte italiana un altro grandissimo protagonista che ce ne ha dato la critica.

Ora vi faccio ascoltare un brano di un’opera famosa, un capolavoro del nostro Ottocento:

RIGOLETTO (che a parte è stato attentissimo al dialogo, balzando improvviso tra loro prorompe)
Ah! ella è qui dunque!… Ella è col Duca!…
TUTTI Chi?
RIGOLETTO La giovin che stanotte
al mio tetto rapiste…
TUTTI Tu deliri!
RIGOLETTO Ma la saprò riprender… Ella è qui…
TUTTI Se l’amante perdesti, la ricerca
altrove.
RIGOLETTO Io vo’ mia figlia…
TUTTI La sua figlia…
RIGOLETTO Sì… la mia figlia… D’una tal vittoria…
Che?… adesso non ridete?…
Ella è là!… la vogl’io… la renderete.
(corre verso la porta di mezzo, ma i cortigiani gli attraversano il passaggio)
RIGOLETTO
Cortigiani, vil razza dannata,
per qual prezzo vendeste il mio bene?
A voi nulla per l’oro sconviene!…
ma mia figlia è impagabil tesor.
La rendete… o se pur disarmata,
questa man per voi fora cruenta;
nulla in terra più l’uomo paventa,
se dei figli difende l’onor.
Quella porta, assassini, m’aprite:
(si getta ancora sulla porta che gli è nuovamente contesa dai gentiluomini; lotta alquanto, poi torna spossato sul davanti)
ah! voi tutti a me contro venite!…
(piange)
Ebben, piango… Marullo… signore,
tu ch’hai l’alma gentil come il core,
dimmi or tu, dove l’hanno nascosta?…
È là? è vero?… tu taci!… perché?
Miei signori… perdono, pietate…
al vegliardo la figlia ridate…
ridonarla a voi nulla ora costa,
tutto al mondo è tal figlia per me
Rigoletto, Atto II
, conclusione della Scena Quarta

La trama del Rigoletto, opera composta da Verdi nel 1851, su libretto di Francesco Maria Piave, ci appare così romanzesca, inverosimile e contorta che qui mi limito all’essenziale che forse ciascuno conosce, visto che è entrata un po’ nel nostro immaginario collettivo di italiani, anche se dubito della sua conoscenza da parte dei più giovani.

E di questo essenziale sottolineerò in particolare quello che più direttamente coinvolge la nostra visita.

Rigoletto è un buffone deforme di corte, gobbo, in un palazzo dove governa un giovane duca la cui attività principale è la seduzione di donne e ragazze, nubili o sposate che siano. L’opera inizia con la rappresentazione di una festa, dove un Conte si scontra col Duca, che gli ha sedotto la figlia. Anche la figlia di Rigoletto, Gilda, è entrata nella sfera di interesse del duca, che però le nasconde la sua vera identità, dicendole di essere un semplice studente. Ma i cortigiani la rapiscono, credendo che sia l’amante segreta di Rigoletto, e la nascondono proprio nel palazzo del Duca, al quale raccontano poi il rapimento. Rigoletto scopre l’intrigo e cerca invano di ottenere la liberazione della figlia; è a questo punto della vicenda che si riferisce l’aria che abbiamo ascoltato. Ma Gilda riesce a liberarsi, raggiunge il padre e gli rivela questo:

GILDA:
Bello e fatale un giovine
s’offerse al guardo mio…
se i labbri nostri tacquero,
dagli occhi il cor parlò.
Furtivo fra le tenebre
sol ieri a me giungeva…
Sono studente, povero,
commosso mi diceva,
e con ardente palpito
amor mi protestò.
Partì… il mio core aprivasi…
RIGOLETTO:
Non dir… non più, mio angelo.
(T’intendo, avverso ciel!)

Rigoletto allora assolda un sicario per uccidere in una locanda il Duca che gli ha sedotto la figlia, ma Gilda è lì, e le tocca assistere, dall’esterno della finestra, ad una nuova scena di seduzione del Duca verso un’altra ragazza, mentre il Duca canta alcune delle arie più celebri dell’intera opera italiana.

DUCA
La donna è mobile
qual piuma al vento,
muta d’accento ~ e di pensier. […]
Pur mai non sentesi
felice appieno
chi su quel seno
non liba amor!

E’ l’esaltazione della vita libertina, dell’amore come sensualità, in un paradossale rovesciamento di ruoli, con cui il Duca lussurioso rinfaccia alle donne, a tutte le donne di essere come lui, piume al vento nel desiderio e nell’infedeltà, senza neppure accorgersi di tracciare il proprio autoritratto.

DUCA:
Bella figlia dell’amore,
schiavo son de’ vezzi tuoi;
con un detto sol tu puoi
le mie pene consolar.
Vieni e senti del mio core
il frequente palpitar.

Ma il vitalismo prorompente del Duca viene ricambiato e la sua prestanza fisica induce le vittime delle sue seduzioni non solo a farsi conquistare ben volentieri, ma a ricambiarlo con un amore autentico.

In questo, Vincenzo Gonzaga, diventa, come forse il Casanova, un lontano precursore del tipo umano del don Giovanni, che verrà immortalato nel secolo successivo da Mozart.

Così Gilda, nonostante la delusione e la gelosia, è talmente innamorata di lui, da decidere di farsi uccidere al suo posto, travestita da uomo.

Solo all’apertura del sacco che contiene il corpo dell’assassinato, che viene consegnato dal sicario a Rigoletto, questo scopre di avere fatto uccidere in realtà la figlia.

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Ora, quando assistiamo a teatro a questo dramma un poco truculento, tendiamo sempre a lasciare in secondo piano il fatto che il Duca di cui si parla è il Duca di Mantova, per antonomasia, e che il palazzo in cui si svolge una parte importante della storia è il palazzo ducale di Mantova.

Per noi questa potrebbe sembrare una ambientazione come un’altra, e invece non è affatto casuale, ma potentemente simbolica: il duca di Mantova diventa la personificazione stessa di un potere cieco e tirannico; l’opera è composta subito dopo il biennio rivoluzionario del 1848-49, e ne risente.

Rigoletto è un ribelle contro il potere assoluto del Duca di Mantova, destinato ad una tragica sconfitta, come i rivoluzionari del Quarantotto, e condivide in questo il destino del Trovatore e della Traviata, le altre due opere popolari di Verdi di due anni dopo, che costituiscono il suo trittico della protesta e della ricerca della libertà sconfitte.

Ma, anche se Verdi, col suo librettista, ha creato, da Rigoletto ai cortigiani, personaggi puramente immaginari, per la sua opera e il Duca di Mantova di cui si parla qui non è nominato e non ha una identità definita, noi possiamo riconoscervi un ben preciso personaggio storico.

Il Duca di Mantova è chiaramente Vincenzo Gonzaga, il protagonista controverso del momento forse più alto della storia di quella dinastia, colui che la conduce al suo maggiore splendore apparente e che ne prepara il rapido crollo dopo di lui, con le sue scelte scellerate e la sua vita disordinata, ma illuminata nei suoi eccessi da un incontenibile amore per l’arte.

Questa identificazione diventa quasi trasparente in un episodio della sua vita che sembra quasi costituire lo spunto dell’opera di Verdi e rimanda alla sua trama.

Nel 1608 o giù di lì, la moglie di Vincenzo I Gonzaga, Eleonora de’ Medici, riceve un bigliettino dallo zio Ferdinando de’ Medici, Granduca di Toscana, che la informa che Belisario Vinta, il suo Primo Segretario, passando per Pavia, ha sentito in una locanda un tale di bassa condizione che si vantava di poter vendere la vita del duca di Mantova a chiunque, visto che questi passava le notti con una sua bella figliastra.

Sembra di essere all’inizio dell’atto III del Rigoletto o no?

Aggiungo ancora un aspetto che stabilisce una connessione tra l’opera e la storia: il padre di Vincenzo Gonzaga, il duca Guglielmo, era gobbo, come gobbo è nell’opera di Verdi Rigoletto; e questo introduce nella storia un sorprendente aspetto edipico, o quasi, visto che è la storia di come un gobbo (Rigoletto nella trama, ma forse, in sottinteso dell’inconscio, il padre Guglielmo) cerca di uccidere, senza riuscirci, il figlio degenere e troppo vitale, il Duca Vincenzo.

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Guglielmo Gonzaga, il padre

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Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato (acquisito per via matrimoniale dal nonno nel 1500) e la cui tomba vedremo nella basilica di Sant’Andrea, era nato nel 1562 e morì prima dei cinquant’anni nel 1612: divenne duca nel 1587, a 25 anni, alla morte del padre Guglielmo, che era gobbo, da cui si differenziò molto per carattere e modi di vita.

Si distinse per prodigalità, intemperanze, amore per il lusso più sfrenato: memorabili i suoi festini con belle dame e le escursioni notturne in compagnia degli amici, le quali spesso si concludevano in rissa, e in una di queste uccise il consigliere preferito del padre, che odiava, ma fu poi graziato dal padre.

Una lunghissima rivalità, che fu sul punto di trasformarsi in guerra aperta lo contrappose ai Farnese di Parma; e dalle campagne di Parma veniva Verdi, per cui non è meraviglia che conservasse una immagine fortemente negativa di questo personaggio, entrato per qualche verso in una specie di mito e passato in proverbio, come immagine di violenza ed arroganza signorile.

Si aggiunga la memoria del suo primo matrimonio nel 1581 con la tredicenne Margherita Farnese, che fu annullato nel 1583 per una dichiarata e controversa malformazione fisica della giovanissima sposa, che la rendeva inabile al matrimonio e alla maternità, con successiva reclusione in convento di clausura a vita della sfortunata ragazza.

Fu in tale occasione, che per rispondere alle controaccuse dei Farnese, Vincenzo dovette sottoporsi a prove di efficienza sessuale con donne messe a disposizione in cambio di denaro, e, dopo due fallimenti, la prima volta pare per la scarsa avvenenza dell’esemplare che gli era stato sottoposto, la seconda per l’eccesso di piccanti afrodisiaci ingeriti prima dell’esame, che gli procurarono una lacrimevole colica, la terza volta con esiti brillanti, riportati nelle accurate relazioni del tempo, che registrano anche aspetto e dimensioni della “verga ducale” e verbalizzano le dichiarazioni della fanciulla; il resto della vita del Duca, peraltro, confermerà la sua piena efficienza, con i quattro figli legittimi del matrimonio successivo con Eleonora de’ Medici e poi con i numerosi figli illegittimi da donne diverse, tranne che negli ultimi anni, quando lui spese cifre folli per una spedizione in America Latina di un avventuriero che doveva riportargli un mitico gusano, un verme dalle proprietà afrodisiache che, ridotto in polvere, avrebbe dovuto restituirgli la perduta virilità, ma che lui non riuscì mai a sperimentare.

Ma la figura di Vincenzo Gonzaga non si esaurisce certamente in questi tratti di erotomane violento e sconclusionato, di presuntuoso ed immaginifico avventuriero del lusso e del sesso: Tasso, Monteverdi, Rubens, sono soltanto i più eminenti degli artisti che ospitò alla sua corte.

Ma dovremmo aggiungere cantanti, attori, architetti per l’ampliamento ulteriore del palazzo, organizzatori di feste e di cortei, in cui venivano spese cifre enormi: il palazzo ducale che rimane oggi è un pallido scheletro di una delle regge più magnificenti d’Europa, che fece da modello a molte altre, e vive come residuo di diverse spoliazioni: la vendita della celeberrima collezione d’arte, la Celeste Galleria, al re di Inghilterra nel 1526 da parte dell’ultimo dei figli di Vincenzo I Gonzaga che ricoprì la carica di Duca, Vincenzo II, e il successivo saccheggio del 1630 ad opera dei lanzichenecchi durante la guerra di successione di Mantova, appunto.

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Sarebbe monca una visita che dimentichi questi aspetti della vita della corte mantovana, diventata modello inimitabile di un lusso che verrebbe da definire anticipatore del dannunzianesimo, e che agì nella nostra cultura con ulteriori suggestioni letterarie.

A Vincenzo Gonzaga è infatti dedicato un libro, Segreti dei Gonzaga, di Maria Bellonci, pubblicato nel 1947, dopo quello dedicato alla vita, o meglio alla psicobiografia, come lei la chiamò, di Lucrezia Borgia.

La Bellonci, che inventò il Premio Strega, che vinse nel 1986, dedicò le sue opere principali ad accuratissime ricostruzioni storiche della vita del nostro Rinascimento, che sarebbero saggi straordinariamente illuminanti e assieme narrazioni affascinanti (poteva essere la nostra Yourcenar…), se non fossero, a mio personale giudizio, oppressi da un linguaggio letterariamente arzigogolato e leccatissimo, nel quale la mente del lettore si confonde e disperde, perché il giudizio storico è continuamente sopraffatto dalla fastosità espressiva che si pone come polo alternativo alla comprensione.

Il personaggio di Vincenzo Gonzaga tuttavia esce da questa densissima narrazione a tutto tondo come un gigante dalle idee confuse e dalle ambizioni smisurate che non seppe dare un centro alla propria esistenza, ma inseguì di volta in volta le suggestioni del momento, senza condurre a termine alcun vero disegno o strategia e accumulando una successione di fallimenti alla fine esemplare, riuscendo da ultimo a restare nella memoria pubblica come un prepotente disordinato e privo di senso del limite.

In lui si rispecchia il carattere smisurato della corte gonzaghesca di Mantova e dei suoi palazzi fastosi e alla fine decadenti.

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Visitare questa città significa dunque non soltanto fermarsi alle suggestioni epidermiche della bellezza, ma al significato che questa bellezza assumeva in un mondo segnato da una violenza che a noi oggi può apparire inaudita, ma era tratto comune di quel mondo e di quei tempi, e forse qualcuno potrebbe dire della natura umana perenne, soltanto malamente mascherato ai tempi attuali.

Noi andiamo ancora a teatro a vedere nel Rigoletto il Duca di Mantova che seduce le donne con la potenza del suo denaro e rischia di essere ammazzato da un sicario: attribuiamo allo spirito romantico di Verdi la violenza che a noi pare un poco inverosimile della storia, e non ci rendiamo conto che invece Verdi, nato nel 1813, non era troppo lontano cronologicamente da quell’ancien regime di sovrani assoluti, abbattuto in Italia dalla rivoluzione francese solo un quindicennio prima, e che la sua opera, scritto dopo il fallimento di una seconda ondata rivoluzionaria europea, quella del 1848-49, rispecchia il modo ostile con cui i contadini della pianura padana, dal vicino osservatorio del parmense, avevano guardato a quel mondo di violenze e sopraffazione.

Sì, perché le sublimi bellezze artistiche, letterarie, musicali, teatrali, coreutiche della reggia di Mantova avevano un preciso contrappunto che viene di solito taciuto, ed è il carattere violento, ma direi quasi barbaro e selvaggio, della vita politica che si svolgeva attorno ai Gonzaga e agli altri principi della fertilissima e ricchissima pianura.

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Dal libro della Bellonci prenderò soltanto tre momenti emblematici, che riassumerò in breve: uno nel periodo attorno alla nascita del principe Vincenzo, uno quando poco i vent’anni si rende responsabile personalmente di un omicidio, ed uno che si svolge proprio nei giorni in cui muore prima di compiere cinquant’anni, travolto da una vita disordinata.

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Vincenzo Gonzaga nasce il 22 settembre 1562; pochi mesi prima a Trento si era recato da Mantova il cardinale Ercole Gonzaga, che aveva mancato l’elezione a papa nel conclave del 1559 ed era suo prozio; toccò a lui condurre a termine il concilio di Trento nell’anno successivo e concludere il processo che portò alla Controriforma, prima di morire, un anno più tardi.

Per la nascita di Vincenzo suo padre Guglielmo decise la costruzione della basilica di Santa Barbara, iniziata nello stesso 1563, compresa all’interno del palazzo ducale:

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ma l’architetto Giambattista Bertani fu accusato di eresia e costretto ad una pubblica abiura nel 1567 sul palco degli eretici, e nello stesso anno il canonico Antonio Ceruti fu condannato al carcere a vita per avere detto che l’anima finisce col corpo.

Ma nel 1565 Guglielmo Gonzaga aveva fatto sparare sulla folla in rivolta a Casale Monferrato, che faceva parte dei dominio dei Gonzaga, come abbiamo visto per acquisto dinastico per via matrimoniale, e nel 1567 scampò dall’essere ammazzato a Casale in chiesa durante la messa per la messa in guardia sulla congiura ad opera di un frate: ne seguì l’uccisione del capo della congiura, Oliviero Capello, l’arresto, la tortura, la morte di decine di cittadini, e la cattura e l’imprigionamento dell’ultimo discendente illegittimo dei precedenti signori di Casale, i Paleologo, Flaminio, che finirà avvelenato in carcere tre anni dopo.

Tutto questo non impediva a Guglielmo di recitare la parte dello scrupoloso credente fino a rendere pubblico, in quello stesso 1567 un voto di completa castità e astinenza sessuale nel matrimonio, assieme alla moglie Eleonora d’Austria, per la quale un simile voto, del resto, doveva essere una specie di liberazione.

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Ci spostiamo adesso al 3 luglio 1582, vent’anni dopo, che sono anche gli anni che ha Vincenzo Gonzaga, e lasciamo la parola alla Bellonci e al suo stile pesante, che ho soltanto diradato qua e là:

Il 3 luglio, di sera, Vincenzo Gonzaga col favorito Ippolito Lanzoni, tutt’e due di quell’umore affocato che si sa, uscirono di castello dichiarando che andavano a salutare l’amico Vittorio Cattaneo. Notte di plenilunio […]. I due giovani, soli, senza staffieri, vestiti di leggero, portando rialzate sulla fronte le berrette, fingevano di passeggiare poggiando sul passo con un’intenzione precisa; e la palesava lo scudetto rotondo che portavano infilato al braccio sinistro, la famosa rotella degli agguati secenteschi.

L’obiettivo dell’agguato è un avventuriero inglese, Giacomo Crichton, italianizzato da noi come Critonio, figlio di un lord, che era riuscito ad acquistare una certa influenza a corte sul padre di Vincenzo, il Duca Guglielmo. Quella notte incontrano il Critonio, dirà poi Vincenzo di non averlo riconosciuto. Riprendiamo la Bellonci:

Certamente si aspettava di incontrarlo; tanto che appena lo ebbe scorto, andargli incontro veloce, urtarlo forte (“per burlare, disse poi), fu tuttu’uno. […] Ma l’urtato, capita a fondo l’intenzione offensiva della burla, sentì tutti i suoi gelidi risentimenti riaffiorare […]; sguainò il pugnale affusolato, arma proibita dalle leggi, e si volse; e poiché il principe era già due passi avanti, nella vicina schiena del Lanzoni infilò il coltello fino al manico.

Anche se ferito mortalmente il Lanzoni tenta di combattere, a fianco di Vincenzo, che alla fine riesce a trafiggere il Critonio che lo supplica: “Altezza, non vi avevo riconosciuto, perdonatemi e lasciatemi la vita” e poi, ferito, perdendo sangue – torbido e nero nella notte di luna – […] aveva preso a correre ed era scomparso. Poi si era fatto trasportare in una farmacia e lì era spirato da buon cristiano essendosi trovati anche per lui frati ad assolverlo.

Il padre di Vincenzo, il duca Guglielmo, da Goito dove si trovava, scrive al figlio una lettera risentita, ma l’accusa principale che gli muove è non l’omicidio, ma di non avere rispettato la parola che gli aveva dato di non frequentare più il Lanzoni, e alla fine il principe Vincenzo venne scagionato, dato che si considerò la rissa “casuale”, e mandato a Ferrara, dalla sorella Margherita, moglie del duca Alfonso II d’Este, e poi a Colorno, dove aveva un’amante.

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Ma veniamo ora ai tragici fatti che si svolgono negli ultimi tempi della vita di Vincenzo, che non lo vedono tanto protagonista attivo, ma piuttosto vittima indiretta della lunga inimicizia che lo aveva contrapposto a Ranuccio I Farnese, il quasi coetaneo duca di Parma e Piacenza, indubbiamente aggravato dal ripudio, già ricordato, da parte di Vincenzo della sorella Margherita Farnese, che aveva sposato in prime nozze e che venne poi dichiarata inidonea al matrimonio per una malformazione fisica non meglio precisata e rinchiusa in convento.

Ranuccio Farnese era collerico, diffidente, paranoico, credulone e superstizioso, dispotico e spietato, sia ispiratore e ideatore di molte straordinarie bellezze di Parma, sia tiranno feroce che non tollerava critiche.

Non seguiremo qui il troppo lungo racconto della Bellonci della cosiddetta congiura dei feudatari, che travolse molti intimi amici di Vincenzo Goozaga, ma una più rapida sintesi da wikipedia.

Nella primavera del 1611 fu arrestato Alfonso Sanvitale, conte di Fontanellato, con un’accusa di uxoricidio. Un suo servitore, sottoposto a tortura, rivelò una presunta congiura ai danni del duca. Furono arrestati alcuni parenti del conte e vari nobili, fra i quali anche il figlio di Barbara Sanseverino, la più grande e solida amicizia femminile di Vincenzo Gonzaga.

Furono tutti sottoposti a tortura e resero ampia confessione: avrebbero dovuto uccidere il duca e sterminare la sua famiglia durante una funzione religiosa. Il 4 maggio 1612, il giudice pronunciò la sentenza di colpevolezza per tutti gli accusati e furono condannati alla confisca dei beni e ad essere decapitati e appesi squartati. Le sentenze furono eseguite la mattina del 19 maggio, tra una folla che si assiepava perfino sui tetti delle case. Sette teste furono infisse ai chiodi del patibolo, e un lungo elenco di poderi e case aggiunto ai registri ducali.

ma Vincenzo Gonzaga era già morto il 18 febbraio, ed era stato sepolto nella stupenda basilica di Sant’Andrea di Leon Battista Alberti.

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Bellezza e ferocia assieme sono le caratteristiche del nostro Rinascimento: chissà se è vero che la bellezza salverà il mondo, come scrisse Dostoevskij.

Belli certamente non erano i versi incredibilmente cortigiani che Torquato Tasso, dedicò a Mantova e al suo duca, e che furono poi raccolti nelle Rime eroiche:

Canzone VII In lode di Mantova e della successione de’ suoi principi, e particolarmente della Casa Gonzaga

Canzone VIII Celebra la Signora Donna Eleonora de’ Medici Gonzaga, principessa di Mantova

Canzone IX Per la nascita del primogenito di Don Vincenzo Gonzaga, principe di Mantova

Canzone X Nella coronazione di Don Vincenzo Gonzaga, Duca di Mantova

Canzone XI Al Signor Scipione Gonzaga, Loda i Marchesi della sua Casa

Canzone XVI Per le nozze del Principe Vincenzo di Mantova con Donna Eleonora de’ Medici
Or due Soli congiunti, e non s’attrista,
mira la nostra età: mirabil vista.
Due Soli di valore e di bellezza […]
l’un per l’altro fiammeggia e per vaghezza
dell’altrui foco ardente.
[…] E Manto […]
il bel Vincenzo accoglie
e l’alta >Leonora, alme pietose.
Chi gigli sparge e rose
dove la bella coppia or posi e giaccia,
ch’Amor di nuovo allaccia […]?

Matrimonio_di_Eleonora_de_Medici_e_Vincenzo_Gonzaga

Canzone XVII Per la nascita del terzogenito del Duca di Mantova
Crescan le palme al Mincio e i novi allori
or nel felice parto,
che già precede il quarto […]
questa stirpe, d’eroi sempre feconda […]
risplenda come Sole […],
io dico di nipoti e d’avi illustri […]

i testi completi in questo link:

https://books.google.it/books?id=wlk3GHLFsR4C&pg=PA434&lpg=PA434&dq=agli+alti+ingegni+%C3%A8+largo+campo+aperto&source=bl&ots=W23sVZNEyK&sig=ACfU3U1NRoIKzA7nTsZfklXosWrd1A2X1g&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwjDtMqr7JbhAhWQsKQKHTXFBGAQ6AEwAnoECAgQAQ#v=onepage&q=agli%20alti%20ingegni%20%C3%A8%20largo%20campo%20aperto&f=false

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Ma la seconda domanda a cui mi è stato chiesto di rispondere è da dove veniva questa ricchezza dei Gonzaga, signori di un ducato che non coincideva neppure con tutta la provincia di Mantova, dato che in essa diversi centri restavano sotto il possesso di rami minori della famiglia (cito fra tutte Sabbioneta), e che a Vincenzo non riuscì neppure di riprendere il controllo di questi centri minori, sostanzialmente paesoni della Bassa che diventavano alla stessa maniera del capoluogo Mantova, delle piccole capitali incredibilmente eleganti e sfarzose…

Confesso che l’origine di questa ricchezza non è semplice da capire.

Tuttavia essa non era nuova, ma la ritroviamo già al tempo dell’antica Roma: da Mantova veniva Virgilio, il poeta più illustre dell’epoca di Augusto, e la sua non è una comparsa casuale alla corte di Mecenate; la sua famiglia era una delle più ricche dell’epoca nell’Italia settentrionale: produceva mattoni, che, col loro marchio di fabbrica Vergilius, si trovano in diversi scavi di varie località – così almeno raccontava il prof. Cazzaniga nel suo corso di Letteratura latina cinquant’anni fa alla Statale di Milano, anche se non ho trovato poi la notizia confermata da altre fonti.

Ma proprio le Egloghe e le Georgiche di Virgilio, rispettivamente dedicate al mondo idealizzato letterariamente dei pastori e all’agricoltura, ci aiutano a dare una risposta: il paesaggio padano che descrivono, infatti, appare molto più diverso, movimentato e vario di quello piatto e uniforme al quale siamo abituati a collegare l’immagine della Val Padana, c on un alternarsi scomparso di boschi, paludi, piccole alture e pianura.

La piatta Val Padana non è affatto naturale, come siamo abituati a pensare, ma è il frutto di una lavoro secolare di bonifiche, dissodamento, livellamento: paesaggio artificiale volto allo sfruttamento agricolo intensivo, in epoche dal clima europeo più freddo dell’attuale, e dunque straordinaria ricchezza di questa produzione agricola che bastava a sostenere non soltanto la popolazione che vi lavorava, ma i lussi della corte – come del resto nei centri simili di Parma, Modena, Ferrara.

Il segreto della ricchezza dei Gonzaga, accanto alla accorta buona amministrazione, fino a che durò, ha una risposta solo: lavoro, lavoro, lavoro, e sfruttamento feroce di quel lavoro contadino da parte di una spregiudicata dinastia di avventurieri feroci e nello stesso tempo amanti dell’arte e del lusso, del quale si servivano come strumento politico.

A Mantova, ad esempio, venne anche l’imperatore Carlo V in un momento in cui i Gonzaga ambivano ad una promozione di grado nella gerarchia ancora feudale dei titoli nobiliari, così come era riuscito ai Medici di Firenze, passati da duchi a granduchi, privilegio unico in Italia, ma non ebbe successo l’esibizione di pure straordinari palazzi ducali, manifestazione di potenza, come quella dei preziosissimi cavalli di razza, che avevano costruito all’inizio della dinastia parte del suo successo europeo (ma i purosangue erano le Maserati dell’epoca) e che erano, al tempo, altrettanto famosi delle opere d’arte.

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Difficile pensare che la bellezza possa salvare il mondo: il modo, se pure può salvarsi, deve farlo in altro modo; e anche Platone la pensava così.

Chiudo con qualche citazione sul filosofo, a riguardo:

Per Platone l’arte non rivela, anzi vela la verità, in quanto non è una forma di conoscenza: non migliora l’uomo; stimola invece la sua parte emotiva a scapito della parte razionale. Le facoltà irrazionali dell’anima sono infatti, secondo Platone, le manifestazioni inferiori di noi stessi: quelle che sviluppano i desideri e gli attaccamenti irragionevoli verso il mondo della materia limitata e sofferente. Per questo motivo afferma che il poeta è “fuori di sé”, inconsapevole di ciò che fa e incapace di insegnare la verità sull’Essere, sulla natura, sulla vita e sul ruolo dell’uomo.
Platone condanna l’arte, che allontana l’uomo dalla realtà, in quanto si limita a riprodurre l’immagine delle cose che, a loro volta, sono riproduzione delle idee, e dunque l’arte è imitazione delle imitazioni.
La poiesis anzi corrompe gli animi, è inferiore alla filosofia e va eliminata dalla vita sociale, in quanto eccitatrice di passionalità scomposte piuttosto che di razionale dominio di sé e ricerca di padronanza sul proprio destino.
L’arte è pericolosa, secondo Platone, poiché allontana l’uomo dalla politica e cioè dalle cose che realmente sono importanti; l’ arte, che è immaginazione, allontana l’uomo dalla vera visione. Perciò l’artista è pericoloso, mentre il filosofo si preoccupa delle cose intellegibili e – trascurando i piaceri sensibili e le ricchezze atte a procurarli – è integralmente onesto e votato al bene comune, e dunque unico davvero degno di governare.
Ma esiste una via di salvezza anche per l’arte, quando si mette al servizio del vero sforzandosi di diffonderlo con parabole e storie immaginate o figurazioni che inducono alla virtù, o musiche che sprigionano nobili commozioni.

Non credo che si debbano integralmente condividere queste idee di Platone, pensatore che pone le radici di un pensiero dogmatico ed antidemocratico, e tuttavia vi è in esse una verità parziale, come ogni verità, che può essere utile contro ogni forma di esaltazione acritica dell’arte in genere e anche del nostro Rinascimento.


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