da Kampot a Phnom Penh e al suo Museo Nazionale – 327 – Cambogia 2009 35

è già venerdì 29 maggio (2009) e non resta che l’ultima tappa di questo mio viaggio in Cambogia di dieci anni fa: il ritorno alla capitale Phnom Penh.

di nuovo in bus, ma per una strada leggermente diversa da quella percorsa tre giorni prima per andare a Sihanoukville; anche per questo, forse, foto e riprese (queste, perdute) sono molto più limitate: riappare la pianura cambogiana, spesso occupata da vasti specchi d’acqua, circondata da piccole alture che restano sulla linea dell’orizzonte.

la partenza avviene all’alba, verso le sette, e la luce rosea dell’aurora si riflette nel paesaggio verde, non ancora pienamente illuminato dal sole; e sono già le due del pomeriggio quando si entra nelle prime strade della capitale affrontando un traffico che era, allora, quasi soltanto di motocicli.

alcuni anche sovraffollati, come mostra la foto di quattro ragazzi ammucchiati su un unico motorino.

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il pomeriggio mi vede al Museo Nazionale della Cambogia, il più importante del mondo per la cultura khmer, ovviamente; sta in un bell’edificio in stile tradizionale, vicino al palazzo reale, costruito quasi un secolo prima.

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dato che è proibito fotografare le opere all’interno, questo valga come giustificazione della pessima qualità delle poche immagini fortunosamente rubate, che cercano solamente di dare una vaga impressione dell’insieme; migliori invece le foto, ammesse, del bellissimo cortile, dove i monaci buddisti si mescolano ai turisti; e anche questa presenza dei monaci fa tanto clima locale.

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ancora di più lo fanno, quasi per antitesi col clima raffinato e colto di quegli ambienti, due monumenti che incontro nell’andare al museo, e qui la parola rimanda direttamente al significato originario di monumentum, che è una specie di ammonimento alla memoria perché svolga la sua funzione e non dimentichi.

una vetrinetta ossario raccoglie ancora crani che restano del genocidio dei khmer rossi di trent’anni prima, allora: qui sono le ossa di vecchie donne di più di sessant’anni: catalogate e distinte secondo la macabra mania classificatoria degli assassini.

poco distante un magic tree, un albero magico, con una scritta che ricorda la sua funzione:

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L’albero era usato per appenderci un altoparlante che produceva suoni più alti per coprire i lamenti delle vittime mentre venivano giustiziate.

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qui introduco delle considerazioni finali: temo che sia totalmente inattuale questa mia attenzione alla tragedia recente di quel paese, il cui ricordo ha costituito il Leitmotiv nascosto (ma non tanto) del mio viaggio.

credo che oramai chi visita la Cambogia, come la Cambogia stessa che vuole farsi visitare, preferisca presentare le bellezze dei suoi monumenti lontani e del suo mare, e che questa memoria sia sentita oramai come una presenza capace di infastidire la ricercata spensieratezza dei turisti, anche di quelli che si definiscono viaggiatori per darsi un tocco un po’ meno banale, ma poi non lo sono davvero.

effettivamente, mi dico, scrivo questi post e monto questi video quasi soltanto per me stesso, e nei tempi nuovi dello stordimento universale non serve a molto riflettere che cosa è davvero l’essere umano e come sia facile farlo impazzire di terrore trasformandolo in una belva sanguinaria.

la Cambogia ce lo ricorda, come i lager tedeschi.


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